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La casa tappezzata di lenzuoli

Iride Bernabei
Iride Bernabei

Mi chiamo Iride e il 31 marzo ho compiuto 90 anni. Me lo dico da sola:

portati bene - e ringrazio il Signore per questo. Ho la testa a posto, sono autosufficiente, e non è cosa da poco per la mia età!

 

Per mia scelta vivo nella Casa di Residenza di Granarolo dell’Emilia.

Poco prima di entrare mi sono rotta una vertebra cadendo e grazie a quella caduta percepisco ben 50 euro di invalidità – meglio di niente.. – oltre, chiaramente, alla pensione e alla reversibilità perché sono vedova.

Qui mi trovo bene, i  ragazzi che lavorano sono tutti  giovani e hanno tanta pazienza per accontentare tutti noi.

Si dice che invecchiando si torna bambini, non è vero, i “vecchi” sono più difficoltosi da accudire anche perché sono malati.

 

Qui ho scoperto che mi piace scrivere e lasciare in questo modo a voi i miei ricordi. Non perché sono i miei ricordi e perché così mi ricorderete, vedete quello che ha passato l’Iride l’hanno passate tante altre Iride che, come me,  hanno più o meno la mia età. Per me ricordare vuol dire che i giovani non si devono mai scordarsi di quello che hanno passato gli anziani durante la guerra e magari che non debba più accadere tutto questo.

Così ecco un pezzo  della mia vita.

Non è la prima volta che lo faccio parlando di due dei miei cari fratelli, ma questa volta  sarà  la storia della mia giovinezza in famiglia durante il periodo della seconda guerra.

 

Abitavamo in montagna, a  Villa D’Aiano, con i miei genitori e i miei fratelli, quelli rimasti a casa… perché i ragazzi o erano al fronte o partigiani!

 

Come molte famiglie e come tutta la zona di montagna  eravamo in prima linea. I  tedeschi e gli americani erano in tutta quella zona e quindi anche  vicino al mio  paese.

Tutti i giorni si sentivano mitragliamenti e c’erano bombardamenti.

In tutta la zona collinare, inoltre, c’erano molti partigiani che avevano trovato,  nei numerosi boschi, il modo per nascondersi.

  Li  era più facile per loro riunirsi e sferrare i loro attacchi contro i tedeschi o i fascisti.

Erano aiutati da noi civili “non armati” anche perché molti di loro erano i nostri fratelli o i nostri figli,  a dispetto e  anche a rischio delle ripercussioni che le famiglie potevano incorrere dai tedeschi  o dai fascisti medesimi.

La guerra è così brutta:  le bombe e le pallottole non hanno un indirizzo mirato  e  cadevano sui nostri campi, sulle nostre case, sui nostri animali e su di noi,  così,  a caso,  solo perché gli aerei vedevano movimenti a loro sospetti. Il guaio è che magari erano anche bombe americane…..

 

I tedeschi erano,  proprio per la presenza dei partigiani,  sempre all’erta e noi civili eravamo i primi ad essere  sospettati di proteggerli, quindi eravamo sempre controllati. Molti sono stati ammazzati solamente perché

sospettati e, a volte, ingiustamente.

Un giorno, sono arrivati  e ci hanno occupato casa per oltre sei mesi.

Facevano così….. avevano in questo modo un presidio fisso e comodo per controllare la zona.

 E’ stata proprio una atroce beffa per noi… una famiglia per niente fascista che ha dovuto  convivere  con i tedeschi e così costretti ad accettare  “per poter vivere”  quello che era ai nostri occhi più ingiusto, sia  come politica,  che come convinzione e ideale.

 

Loro che,  con i fascisti,  ci avevano rubato fratelli, figli, padri!

Erano la forza delle famiglie di quell’epoca, erano loro che lavoravano la terra. Mancando loro,  le donne dovevano pensavate  a tutto: alla terra da coltivare  e ai numerosi figli da “tirar su”.

 

Ricordo perfettamente il giorno che  arrivarono”i crucchi”, ma come lo potrei scordare?

 

 Entrarono nella nostra aia con le loro camionette e con la loro arroganza dovuta alle armi che indossavano come vestiti e come spauracchio per noi, civili indifesi .

La nostra casa fu ispezionata. Le nostre cose più belle requisite per le loro stanze. Le nostre lenzuola più belle utilizzate come tappezzeria. Proprio così!  Le attaccarono ai muri delle camere dove si erano insediati  perché erano  schizzinosi e dicevano che erano brutti.

I tedeschi in quei mesi diventarono i nostri “padroni” e in tutto quel periodo fummo i loro servi:  ci fecero  lavorare, ci beffarono , rubarono, torturarono psicologicamente e fisicamente. Mangiarono  il nostro pane fatto col grano da noi seminato e raccolto con la nostra fatica, bevvero il nostro vino fatto con l’uva da noi raccolta.

 Cose semplici direte,  ma in quel periodo erano sufficienti per la nostra famiglia  perché c’era tanta miseria, ma   loro ne beneficiarono lasciando a noi gli avanzi.

 

Avevamo le mucche ma allora si tenevano  più che altro per il latte.

Loro invece ce le ammazzavano per mangiare buone bistecche - chiaramente solo per loro….

In montagna si coltivavano le patate, riempivano la pancia.., perché c’era poco di tutto. Pensate che ancora oggi per me le  patate sono le kartoffein

e  le lego sempre a quello che mi successe una mattina.

Mi alzai come sempre in quel periodo, sperando che fosse un giorno come un altro, come era sempre stato prima. Fare le medesime cose di tutti i giorni dava un senso di normalità in quel periodo.

Ero  nell’aia e davo da mangiare alle galline e arrivò  un  tedesco che mi ordinò con suo accento  glaciale  e secco: - Fraulen pelare kartoffein!!

Volevo solo la quiete,  ma quel giorno non ce la feci a stare zitta. Era il modo provocatorio con quale comunicavano, sempre così indisponente e allora gli risposi:

-         Io nix pelare kartoffein!

Lui mi guardò con quegli occhi di ghiaccio,  imbracciò il fucile

: - Tu nix pelare kartoffein? Io fare kaputt!   

Mi  puntò  il  fucile  in  fronte  fino  a  quando lesse  la paura dentro di me  e allora i suoi occhi di ghiaccio risero soddisfatti mentre io, con la tremarella alle gambe corsi in casa urlando

: - Ja ja  pelare patate….

 

Sapete come cresceva l’odio dentro di noi? Ma era l’impotenza di fronte

a tutti questi fatti che vinceva e loro se ne nutrivano  come strane bestie, quasi neppure di questa terra. Come si fa a raccontare quello che passava nel mio cuore sia allora che adesso quanto ricordo questi eventi?  Per me è così difficile solamente pensare che un essere umano come me possa fare del male ad un altro essere umano!  Forse, proprio per questo, dentro di me  lo considero non di questa terra e riesco così a darmi almeno una spiegazione.

 

Ricordo ancora che in quel periodo in casa non esisteva l’acqua corrente e non c’era corrente elettrica.

Bevevamo  l’acqua del pozzo che avevamo nell’aia davanti casa. Avevamo attaccato ad una catena una pentola di rame che calavamo giù, con la quale poi  riempivamo tre o quattro secchi che tenevamo pronti per cucinare o riempire le caraffe per i pasti o per lavarci.

 

Un giorno mi ordinarono più secchi di acqua quindi con la loro usuale cortesia mi obbligarono ad andare al pozzo per raccoglierla nei secchi. Erano li, sull’uscio di casa in tre o quattro che mi guardavano e parlavano nella loro lingua. Presi la pentola di rame per calarla nel pozzo e sentii una forte scarica elettrica per tutto il corpo.

Sentivo i loro sguardi addosso, sentivo le loro risate e le loro voce   di

commento mentre se ne stavano li a guardarmi.

Ascoltavo le loro risate e le loro voci che mi deridevano mentre cadevo a terra.

Non so bene come,  ma forse  è proprio come dicono: la disperazione ti da più forza e riuscii a staccare le mani da quella benedetta pentola di rame.

Quel giorno si erano svegliati con una grande voglia di divertirsi alle nostre spalle  e così avevano studiato e costruito un gioco.

Con i loro trasmettitori avevano attaccato la corrente alla pentola. Io ero diventata la loro  bambola da guardare mentre si contorceva sotto le scariche elettriche.

Quante  angherie come queste che ho raccontato abbiamo subito, mentre i giorni passavano così,  troppo lenti e impregnati di paura:

paura per tutto,  perfino  alzarsi la mattina pesava perché avevi il timore di  vivere tormenti inutili e impensabili.

 

Del piccolo plotone che si era insediato nella nostra casa ho però sempre presente nella mia mente il “tenente”. Io lo avevo chiamato così.

Fra tutti era il più umano, forse il meno  “indottrinato”  politicamente. Lui era umano! L’unica nota buona in quello squallore!

Parlava un po’ l’italiano e cercava sempre di farsi capire quando era con noi e aveva una sorta di protezione facendoci risparmiare inutili angherie.

Un giorno mi chiese quanti anni avevo io, la piccola frauleen. Glielo dissi e confidai che fra dieci giorni avrei compiuto gli anni.

Sorrise e mi salutò.

 

Vicino a casa nostra cresceva una bellissima siepe di biancospino. A marzo è in fiore ed era uno spettacolo!

Passarono i dieci giorni, mi alzai come sempre con la mia paura e malinconia perché quel giorno, in un altro momento, sarebbe stato più gioioso,  ma quel giorno per me fu una bella sorpresa! Vidi arrivare una  camionetta: il tenente scese,   andò verso la siepe, staccò un ramo di biancospino e si avvicinò a me mentre davo da mangiare alle galline nell’aia.

Auguri! Mi disse.

 Lo guardai pensando: - Beh! Si è ricordato di me!

Anche se era un nemico era un uomo che portava rispetto!

 

 I giorni passavano e arrivò il tempo in cui

 finalmente se ne andarono.

Finì quell’incubo, ma fu come se fosse passato uno sciame di cavallette….

Chi aveva gli animali come noi: mucche, galline… tutto rubato.

 Cosa rimase?? Le case rase al suolo dai bombardamenti e tanta, tanta desolazione, compresa quella nei nostri cuori.

 

Ma vedete, la voglia di ricominciare alla fine vince e così la vita continua….. e ricostruire quello che si è perso ti da forza.

La speranza  ti scorre dentro come un fiume, e  in questi momenti ci si aiuta di più. Anche i vicini diventano  fratelli e insieme ci fu  la ricostruzione

E’ vero, l’unione dà la forza, la forza d’animo ti sorregge e

fa cose incredibili!

 

Rimangono i ricordi, i ricordi non si perdono: la mia cara  casa con le pareti tappezzate di lenzuola di canapa, coltivata e raccolta con tanta fatica e  tessuta  col telaio nelle sere di inverno. Vicino alla mamma, al lume di candela, mentre lei  mi insegnava come si faceva.

Quelle lenzuola, ricamate con tanto amore, perché sarebbero state la mia dote il giorno del matrimonio.

Il mio vitellino: era nato da qualche mese ed è diventato subito bistecca per loro.

La Nerina la Bianchina e tante altre, erano le mie galline da uova e lo sarebbero state ancora per tanto,  tanto tempo……

un ramo di biancospino in questo squallore  e poi….. ancora altro… tanto altro….. i ricordi rimangono e alcuni …. pesano!

 

 

Racconto di Iride Bernabei

Casa Protetta di Granarolo dell'Emilia

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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