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La risèra

Voglio credere che tutti noi l’abbiamo avuta o data, ma csa vutt ca degga, ala fèn tott i dè aven un  poc ed sulidarietè e anc d’umanitè da vuter che a lavurè par no! (ma cosa vuoi che ti dica, noi alla fine abbiamo tutti i giorni un po’ di solidarietà ed umanità da voi che lavorate per noi!). Ma se vogliamo essere precisi e parlare di quella solidarietà che non si debba confondere neanche un po’ con la parola “dovere” relativo al lavoro, allora ti racconto di me, quando ero piccolina. 

Avevo 10 anni e la miseria la fèva i cinèn (faceva i piccoli…)  e io già andavo in risaia. Sai quante patozze della mia età partivano come me in bicicletta e su dei carri per andare a lavorare. Abitavo a … e con la bicicletta, un bel ravaldone (rottame) da uomo per giunta, andavo fino a Marmorta. A ira … chilometri e lì si formava un gruppo di donne che aspettava. La mattina presto arrivavano uno o due caporali che ci smistava nelle varie risaie dei dintorni: chi a Molinella, chi a Bentivoglio, chi ad Argenta. Che giornate ragazze, chi non l’ha fatto non si può immaginare neppure lontanamente la fatica che si doveva sopportare, soprattutto per noi patozzine

La mattina cominciava all’alba fino alla sera al tramonto, sotto il sole e con le gambe nell’acqua. Nonostante il sole l’acqua sembrava fredda e poi c’erano al bess (bisce) che sguillavano in mezzo alle gambe e i ranucc! Cal donn i ciapevan (quelle donne li prendevano) e se li infilavano chi nelle calze chi nei bragaldoni (bragoni). Se vi domandate perché è, che si mangiava una volta al giorno solo e l’ira poc, un piatèn ed ris se l’andèva bàn ( era poco, un piattino di riso se andava bene). Con i ranocchi invece mangiavamo almeno un po’ di carne. Voi non avete idea però che unione c’era fra il gruppo delle donne con le gambe nell’acqua. 

Sì! Noi mondine eravamo davvero unite e solidali. Si lavorava in condizioni pietose ma ci si aiutava.  Si beveva acqua marcia di fosso e ci si ammalava di febbre per colpa anche  delle zanzare che ci ronzavano attorno, ma una aiutava l’altra. Pensate che a volte noi patozze non eravamo neanche pagate! Ce n’erano  alcune più piccole di me che  accompagnavano la mamma che non aveva modo di lasciarle a casa perché sarebbero rimaste sole.

Il gruppo delle donne si faceva carico di queste bimbette e un po’ in questo modo aiutava anche la madre. Alla fine della settimana, quando ci consegnavano il salario, ognuna di noi  metteva da parte un bajuchèn (un soldino) del nostro salario e lo davano alla bimba non pagata.

Guardate che alla fine lavoravano sodo anche quelle creaturine così come lavoravo sodo io a 10 anni! Se poi qualche donna stava poco bene la coprivano, nel  caso fosse passato  il caporale a controllare noi mondine. Ecco! Io penso proprio a quel periodo quando sento queste parole: fratellanza, uguaglianza, unione e allora sento i nostri cori intonati sotto il sole, i nostri movimenti tutti uguali mentre raccoglievamo il riso, il sudore e i nostri lamenti, e una mano che ti soccorreva sollevandoti se ti sentivi svenire sotto la calura.

 

 

Racconto di nonna Nirvana

Casa Protetta di Granarolo dell'Emilia

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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